domenica 26 gennaio 2014

Appello dei giuristi: Italicum peggio del Porcellum, fermatevi




La pro­po­sta di riforma elet­to­rale depo­si­tata alla Camera a seguito dell’accordo tra il segre­ta­rio del Par­tito Demo­cra­tico Mat­teo Renzi e il lea­der di Forza Ita­lia Sil­vio Ber­lu­sconi con­si­ste sostan­zial­mente, con pochi cor­ret­tivi, in una rifor­mu­la­zione della vec­chia legge elet­to­rale – il cosid­detto “Por­cel­lum” – e pre­senta per­ciò vizi ana­lo­ghi a quelli che di que­sta hanno moti­vato la dichia­ra­zione di inco­sti­tu­zio­na­lità ad opera della recente sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale n.1 del 2014.
Que­sti vizi, afferma la sen­tenza, erano essen­zial­mente due.
Il primo con­si­steva nella lesione dell’uguaglianza del voto e della rap­pre­sen­tanza poli­tica deter­mi­nata, in con­tra­sto con gli arti­coli 1, 3, 48 e 67 della Costi­tu­zione, dall’enorme pre­mio di mag­gio­ranza – il 55% per cento dei seggi della Camera – asse­gnato, pur in assenza di una soglia minima di suf­fragi, alla lista che avesse rag­giunto la mag­gio­ranza rela­tiva. La pro­po­sta di riforma intro­duce una soglia minima, ma sta­bi­len­dola nella misura del 35% dei votanti e attri­buendo alla lista che la rag­giunge il pre­mio del 53% dei seggi rende insop­por­ta­bil­mente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del prin­ci­pio di rap­pre­sen­tanza lamen­tata dalla Corte: il voto del 35% degli elet­tori, tra­du­cen­dosi nel 53% dei seggi, ver­rebbe infatti a valere più del dop­pio del voto del restante 65% degli elet­tori deter­mi­nando, secondo le parole della Corte, “un’alterazione pro­fonda della com­po­si­zione della rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica sulla quale si fonda l’intera archi­tet­tura dell’ordinamento costi­tu­zio­nale vigente” e com­pro­met­tendo la “fun­zione rap­pre­sen­ta­tiva dell’Assemblea”. Senza con­tare che, in pre­senza di tre schie­ra­menti poli­tici cia­scuno dei quali può rag­giun­gere la soglia del 35%, le ele­zioni si tra­sfor­me­reb­bero in una roulette.
Il secondo pro­filo di ille­git­ti­mità della vec­chia legge con­si­steva nella man­cata pre­vi­sione delle pre­fe­renze, la quale, afferma la sen­tenza, ren­deva il voto “sostan­zial­mente indi­retto” e pri­vava i cit­ta­dini del diritto di “inci­dere sull’elezione dei pro­pri rap­pre­sen­tanti”. Que­sto mede­simo vizio è pre­sente anche nell’attuale pro­po­sta di riforma, nella quale pari­menti sono escluse le pre­fe­renze, pur pre­ve­den­dosi liste assai più corte. La desi­gna­zione dei rap­pre­sen­tanti è per­ciò nuo­va­mente ricon­se­gnata alle segre­te­rie dei par­titi. Viene così ripri­sti­nato lo scan­dalo del “Par­la­mento di nomi­nati”; e poi­ché le nomine, ove non avven­gano attra­verso con­sul­ta­zioni pri­ma­rie impo­ste a tutti e tas­sa­ti­va­mente rego­late dalla legge, saranno decise dai ver­tici dei par­titi, le ele­zioni rischie­ranno di tra­sfor­marsi in una com­pe­ti­zione tra capi e infine nell’investitura popo­lare del capo vincente.
C’è poi un altro fat­tore che aggrava i due vizi sud­detti, com­pro­met­tendo ulte­rior­mente l’uguaglianza del voto e la rap­pre­sen­ta­ti­vità del sistema poli­tico, ben più di quanto non fac­cia la stessa legge appena dichia­rata inco­sti­tu­zio­nale. La pro­po­sta di riforma pre­vede un innal­za­mento a più del dop­pio delle soglie di sbar­ra­mento: men­tre la vec­chia legge, per que­sta parte tut­tora in vigore, richiede per l’accesso alla rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare almeno il 2% alle liste coa­liz­zate e almeno il 4% a quelle non coa­liz­zate, l’attuale pro­po­sta richiede il 5% alle liste coa­liz­zate, l’8% alle liste non coa­liz­zate e il 12% alle coa­li­zioni. Tutto que­sto com­por­terà la pro­ba­bile scom­parsa dal Par­la­mento di tutte le forze minori, di cen­tro, di sini­stra e di destra e la rap­pre­sen­tanza delle sole tre forze mag­giori affi­data a gruppi par­la­men­tari com­po­sti inte­ra­mente da per­sone fedeli ai loro capi.
Insomma que­sta pro­po­sta di riforma con­si­ste in una rie­di­zione del por­cel­lum, che da essa è sotto taluni aspetti – la fis­sa­zione di una quota minima per il pre­mio di mag­gio­ranza e le liste corte – miglio­rato, ma sotto altri – le soglie di sbar­ra­mento, enor­me­mente più alte – peg­gio­rato. L’abilità del segre­ta­rio del Par­tito demo­cra­tico è con­si­stita, in breve, nell’essere riu­scito a far accet­tare alla destra più o meno la vec­chia legge elet­to­rale da essa stessa varata nel 2005 e oggi dichia­rata incostituzionale.
Di fronte all’incredibile pervicacia con cui il sistema politico sta tentando di riprodurre con poche varianti lo stesso sistema elettorale che la Corte ha appena annullato perché in contrasto con tutti i principi della democrazia rappresentativa, i sottoscritti esprimono il loro sconcerto e la loro protesta
Con­tro la pre­tesa che l’accordo da cui è nata la pro­po­sta non sia emen­da­bile in Par­la­mento, ricor­dano il divieto del man­dato impe­ra­tivo sta­bi­lito dall’art.67 della Costi­tu­zione e la respon­sa­bi­lità poli­tica che, su una que­stione deci­siva per il futuro della nostra demo­cra­zia, cia­scun par­la­men­tare si assu­merà con il voto. E segna­lano la con­creta pos­si­bi­lità – nella spe­ranza che una simile pro­spet­tiva possa ricon­durre alla ragione le mag­giori forze poli­ti­che – che una simile rie­di­zione pale­se­mente ille­git­tima della vec­chia legge possa pro­vo­care in tempi più o meno lun­ghi una nuova pro­nun­cia di ille­git­ti­mità da parte della Corte costi­tu­zio­nale e, ancor prima, un rin­vio della legge alle Camere da parte del Pre­si­dente della Repub­blica onde sol­le­ci­tare, in base all’art.74 Cost., una nuova deli­be­ra­zione, con un mes­sag­gio moti­vato dai mede­simi vizi con­te­stati al Por­cel­lum dalla sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale. Con con­se­guente, ulte­riore discre­dito del nostro già scre­di­tato ceto politico.
Primi fir­ma­tari:
Gae­tano Azza­riti, Mauro Bar­be­ris, Miche­lan­gelo Bovero, Erne­sto Bet­ti­nelli, Fran­ce­sco Bilan­cia, Lorenza Car­las­sare, Paolo Caretti, Gio­vanni Cocco, Clau­dio De Fio­res, Mario Dogliani, Gianni Fer­rara, Luigi Fer­ra­joli, Angela Musu­meci, Ales­san­dro Pace, Ste­fano Rodotà, Luigi Ven­tura, Mas­simo Vil­lone, Ermanno Vitale.

Pie­tro Adami, Anna Fal­cone, Gio­vanni Incor­vati, Raniero La Valle, Roberto La Mac­chia, Dome­nico Gallo, Fabio Mar­celli, Valen­tina Pazè, Paolo Solimeno

Manifesto 26.01.2014

venerdì 17 gennaio 2014

Un Parlamento neo-Costituente deve essere eletto con una legge elettorale proporzionale


Il prossimo Parlamento sarà un Parlamento Costituente: 
le Riforme costituzionali saranno tra i primi punti, se non il primo punto all’ordine del giorno.
E’, non solo logico, ma appunto coerente con la Costituzione e i principi fondanti di ogni paese che voglia dirsi democratico, che il prossimo Parlamento sia ampiamente rappresentativo di tutte le forze del Paese.
Per questo motivo chi vuole difendere la Costituzione dovrebbe battersi ORA per una legge elettorale che sia il più possibile rappresentativa, cioè costituzio-nalmente proporzionale.
L’argomento della governabilità è insufficiente e pretestuoso a fronte di queste evidenza. 

La proposta di Renzi-Berlusconi è da respingere in blocco: 
dobbiamo esigere una legge proporzionale per arrivare a un Parlamento neo-costituente ampiamente rappresentativo delle vive forze politiche e sociali del paese con attenzione, non retorica, alla parità di genere.


venerdì 10 gennaio 2014

LA RIFORMA ABBANDONATA: riflessioni su una riforma eversiva mancata


LA RIFORMA ABBANDONATA

di Alessandro Pace
la Repubblica, 9 gennaio 2014


Con l'annuncio, a fine anno, da parte del Presidente della Repubblica che le riforme costituzionali "restano una priorità" ma "le procedure da seguire... sono rimaste quelle originarie", è stato ufficialmente chiuso il capitolo delle riforme costituzionali previste dal disegno di legge costituzionale 813 (di seguito, ddl 813). Sarebbe però un errore fare finta di niente e non parlarne più. Un silenzio che, in un futuro anche prossimo, potrebbe consentire di riesumare ancora una volta il metodo di revisione costituzionale "derogatorio", "speciale" e "straordinario" incentrato su di una Commissione bicamerale per le riforme, già tentato infruttuosamente nel 1993, nel 1997 e, da ultimo, nel 2013. Dovrebbe piuttosto aprirsi un ampio dibattito, in sede istituzionale oltre che scientifica, nel quale siano discussi i molti aspetti controversi del ddl 813, di cui cercherò qui di seguito di evidenziare almeno i tre più importanti.
Il primo è costituito dalla lampante contraddizione tra il formale ossequio all'articolo 138 -ritenuto tuttora idoneo a 'garantire' i valori ed i principi della nostra Costituzione mediante il procedimento di revisione ivi previsto (e perciò non modificato)- e la previsione di un metodo 'alternativo', una tantum (!), per le riforme costituzionali. Diversamente da quanto erroneamente ritenuto anche in sede di discussione parlamentare del ddl 813, deve essere sottolineato che l'articolo 138 non è una disposizione costituzionale come le altre i cui principi possono essere bilanciati con altri principi e, se del caso, derogati. L'articolo 138  è invece una 'regola' (autorevoli filosofi del diritto, quali Bobbio e Dworkin, la definirebbero "una regola costitutiva"). Come tale, l'articolo 138 dà luogo ad un'alternativa secca: rispettarlo o violarlo. Esso potrà bensì essere stabilmente modificato (a patto che si rispettino i due principi su cui si basa: il principio di rigidità costituzionale ed il principio democratico, che si realizza con il referendum popolare), ma non derogato. Ogni deroga all'articolo 138 si risolve infatti in una sua elusione. Ed ogni elusione costituisce una 'frode' alla Costituzione.
Il secondo aspetto critico del ddl 813 sta nella riesumazione del modello della Commissione bicamerale, già seguito infruttuosamente nel 1993 e nel 1997. Il quale si giustificava a quei tempi in quanto era allora prevalente la tesi secondo la quale le leggi di revisione costituzionale potevano contenere decine e decine di articoli relativi alle più disparate materie (leggi omnibus, quindi). Dopo il 1997 le cose però cambiano. Diviene prevalente la tesi (la cui esattezza verrà ribadita dal fallimento, col referendum del 2006, della legge costituzionale omnibus voluta da Silvio Berlusconi) secondo la quale il doveroso rispetto degli elettori impone che il contenuto delle leggi costituzionali debba essere omogeneo perché essi possano consapevolmente esprimere il loro voto in sede referendaria. Ebbene, il ddl 813 fa suo questo indirizzo dottrinale, ma anziché seguire la via maestra della procedura prevista dall'articolo 138 per la revisione della forma di governo, del bicameralismo perfetto e della forma di Stato, esso prevede l'istituzione di una Commissione bicamerale a cui affida anche l'esame della legge elettorale. Va da sé che la previsione di una apposita Commissione bilaterale per le riforme costituiva un'occasione troppo ghiotta per non aggiungere altra carne al fuoco. E così, in occasione della prima lettura del ddl 813, il Senato approva un emendamento che allarga a dismisura l'oggetto originario del ddl (l'approvazione di quelle sole tre leggi costituzionali), con la conseguenza che, in forza di esso, potranno costituire oggetto di revisione costituzionale 'tutti' gli articoli contenuti nei Titoli I (Parlamento), II (Presidente della Repubblica), III (Governo), e V (Regioni, Province e Comuni), nonché gli articoli inclusi nei Titoli IV (Magistratura) e VI (Garanzie costituzionali) purché "strettamente connessi". Di qui il rilievo che il potere di revisione era stato trasformato in un potere costituente potenzialmente eversivo di pressoché tutta la Parte II della Costituzione (Ordinamento della Repubblica).
Il terzo aspetto critico del ddl 813 sta nell'improprietà della presentazione di un ddl di revisione costituzionale da parte del governo. Anziché seguire l'esempio dei Padri della nostra Repubblica che tennero distinta l'attività dell'Assemblea costituente da quella del governo De Gasperi, i padri del ddl 813 non hanno differenziato l'attività del governo Letta  dall'attività di revisione costituzionale, e ciò al precipuo scopo di salvaguardare le cosiddette 'larghe intese' (evidentemente ritenute più importanti della stessa Costituzione). Ebbene, a parte ogni ulteriore rilievo critico a taluni aspetti 'di contorno' -quali la costituzione di una Commissione di 'esperti' nominati dal Presidente del Consiglio, concepibile in un sistema (semi) presidenziale come quello francese (così la Commissione Balladur), ma non in quello parlamentare italiano-, la conferma della fondatezza della critica alla commistione tra livello di governo e livello costituzionale sta proprio nelle ragioni che hanno determinato, da parte del Presidente del Consiglio, l'abbandono del procedimento di approvazione del ddl 813: la scelta di Forza Italia di recedere dalla maggioranza di governo.



martedì 24 dicembre 2013

Europa, i legislatori del futuro, Barbara Spinelli



Europa, i legislatori del futuro 
di Barbara Spinelli
Sei anni sono passati dall’inizio della crisi, e tre sono gli stati d’animo di chi in Europa governa lo squasso o lo patisce. C’è chi si complimenta con se stesso, convinto che il peggio sia alle spalle: nei Paesi debitori le bilance di pagamento tornano in pareggio, l’intervento lobotomizzatore è riuscito, anche se il paziente intanto è stramazzato. Ci sono i catastrofisti, che ritengono euro e Unione un fiasco.
Di qui l’appello a riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente immolata. Infine ci sono gli europeisti insubordinati: essendo la crisi non finanziaria ma politica, è l’Unione che urge cambiare, subito e radicalmente.
I veri rivoluzionari sono gli ultimi, perché vogliono scalzare il potere delle inette oligarchie che l’hanno guastata e crearne un altro, non oligarchico. La questione della sovranità sequestrata non viene affatto negata, ma posta in altro modo: esigendo accanto alle malridotte sovranità statali una sovranità europea effettiva, solidale e quindi federale, dotata di una Banca centrale prestatrice di ultima istanza. Nietzsche li avrebbe chiamati i «legislatori del futuro», dediti a un «compito colossale» ma ineludibile: non contentarsi di constatare la crisi, ma «determinare il Dove e Perché» del cammino umano, fissando nuovi princìpi.
Sono gli unici in grado di adottare l’antica, nobile filosofia scettica: la realtà costituita è apparenza, e il compito colossale consiste nel confutarla col pensiero e gli atti. A ogni tesi corrisponde un’antitesi: il mondo non è senza alternative. Quest’ultimo è insensato oltre che menzognero, ragion per cui i rivoluzionari sono avversari dell’immobilismo, che professa l’Europa a parole. Quando sentono parlare di bicchiere mezzo pieno s’impazientano, perché un pochetto di vino va bene per i tempi tiepidi, non per i bollenti. Non a caso la parola greca skepsis significa ricerca, indagine: gli scettici si dissero “ricercatori”, visto che tutte le questioni erano aperte.
Non stupisce che umori analoghi si manifestino a Atene, nei programmi di Alexis Tsipras, leader della sinistra radicale ellenica ed europea. La Grecia infatti è stata non solo un Paese immiserito dal trattamento deflazionistico. L’hanno usata come cavia, come animale da esperimento biologico. Biologico alla lettera: quanto e come avrebbe resistito, viva, alla cura da cavallo? Non ha resistito. La bilancia dei pagamenti è risanata ma si è gonfiato un partito nazista, Alba Dorata. Dal paese-cavia giungono notizie costernanti: ai suicidi, s’aggiungono quest’inverno i morti carbonizzati da malconce stufe a legna, usate quando non hai soldi per l’elettricità (sito di Kostas Kallergis). Tra i legislatori del futuro non dimentichiamo i Verdi di Green Italia.
Lista Tsipras e Verdi potrebbero unire gli sforzi, se non saranno esclusi dal Parlamento europeo che sarà eletto il 22-25 maggio.
La lotta non è tra europeisti e antieuropeisti (i poli sono tre, non due). È tra chi si compiace in pigri rinvii, chi fugge, e chi vuol scompigliare l’Unione disunita. Questo pensano i firmatari dell’appello di domenica sul Manifesto.
È urgente — dicono — un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive, e alla Banca centrale europea una funzione prioritaria di stimolo alla crescita: «Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore imperdonabile, e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare». Tra le firme: Stefano Rodotà, Luciano Canfora, Marcello De Cecco, Adriano Prosperi, Guido Rossi, Salvatore Settis.
C’è una cosa che abbiamo capito, in questi anni: l’Europa così com’è — e forse le democrazie — non sono attrezzate per pensare e affrontare le crisi, se per crisi s’intende non un’effimera rottura di continuità ma un punto di svolta, un’occasione che ci trasforma. Crisi simili sono temute, perché minano oligarchie dominanti e ricette fondate su vecchie nozioni di Pil, oggi molto contestate. Come nella peste di Atene o nella guerra civile di Corcira (Corfù), narrate da Tucidide, la corruzione dilaga e gli uomini diventano «indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane» (alle costituzioni democratiche, oggi). Nessuno crede che otterrà giustizia e uguaglianza («Nessuno sperava di restare in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti»). Quanto ai capi della fazioni di Corcira: «A parole servivano lo Stato; in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara ».
Quello che abbiamo visto in questi giorni a Lampedusa e a Roma — in centri sfacciatamente chiamati d’accoglienza — è rivelatore: uomini e donne denudati per ripulirli d’una scabbia contratta dopo l’ingresso nei recinti, e a Roma ribelli che si cuciono le bocche. Chi ha visto il film di Emanuele Crialese (Nuovomondo) ricorderà la vergogna di Ellis Island, presso la statua della libertà a New York: l’umiliazione dei controlli medici, fisici, mentali, cui i trapiantati erano sottoposti.
Isola delle Lacrime, era chiamata. Il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini va oltre: denudare in pubblico un essere umano ricorda i Lager.
 Se la crisi è paragonabile a una peste, se sconvolge costituzioni e democrazia, se secerne rabbie tanto vaste (la Lega parla di «euro criminale »), non bastano più i piccoli progressi di cui si felicitano i governanti. Esemplare è l’Unione Bancaria concordata il 18 dicembre a Bruxelles dai leader europei. È stata descritta come un «risultato storico». In realtà è un inganno, spiegano critici seri come Wolfgang Münchau e Guy Verhofstadt sul Financial Times, o Federico Fubini su Repubblica. L’unione delle banche vedrà la luce solo fra 10 anni, come se la crisi non esistesse già adesso, e le somme che saranno allora a disposizione delle banche in difficoltà sono ridicole: appena 55 miliardi di euro, «quanto basta per un unico intervento di medie dimensioni (una sola banca, ndr), a fronte di bilanci bancari che in totale valgono 25 mila miliardi» (Fubini, 20-12). Anche l’economista Rony Hamaui, sul sito Voce. it, è esterrefatto: è bene che non siano i contribuenti ma i privati a pagare, ma la somma in cantiere è niente, «se pensiamo che i governi europei hanno mobilitato in questi anni risorse per oltre 4500 miliardi ». Angela Merkel ha voluto quest’accordo al ribasso: la sua rielezione, e la coalizione con i socialdemocratici, sono non un progresso ma una regressione e una chiusura.
 Non è la prima volta che l’Europa si trincera nell’ottusità, davanti a scosse gravi. Anche in politica estera è così. Parigi ad esempio chiede aiuti per gli interventi in Africa, ma si guarda dal condividere e discutere la sua politica estera con il resto dell’Unione, e con Berlino che lo domanda da quando nacque l’euro.
Purtroppo le dittature sembrano più equipaggiate delle democrazie, di fronte alle crisi e alle rivoluzioni. Vedono crisi e sovversioni in ogni angolo, il che le rende paradossalmente più mobili, guardinghe. La rapidità con cui Putin decide le sue mosse è significativa: sia quando profitta della sua ricchezza energetica per legare a sé l’Ucraina e vietarle l’associazione con l’Unione europea, sia quando scarcera i propri dissidenti: tardi ma al momento giusto.
La sete dell’uomo forte non meraviglia. È la sete dei catastrofisti, ma anche di chi difende lo status quo. Solo i legislatori del futuro resistono. Sanno che il futuro dovrà costruirsi sul rispetto delle Costituzioni, e su un’idea di bene pubblico che è stata l’Europa a inventare, per far fronte col Welfare alla triplice sciagura della povertà, della disuguaglianza, delle guerre civili.
La Repubblica 24.12.2013